Il grande bisonte bianco

Ho perso la cognizione del tempo perché il mio cervello è impegnato nella ricerca della preda. La neve è caduta copiosa, tanta neve sul suolo, sulle piante. Neve soffice, leggera. E’ un mondo bianco. Al mio passaggio si alzano cristalli di neve che il sole rende luccicanti come stelle. Non ho pensieri tranne l’ossessione per la preda, e la consapevolezza del mio corpo perfetto che non sente stanchezza, in perfetta armonia con il movimento degli arti. La felicità per questo stato di grazia mi pervade e sto volando su questo manto bianco. Odore di neve, di resina dei larici e degli abeti, e molecole del profumo della preda. Forse è solo la mia mente che immagina la sua presenza. No, so che si trova lungo il sentiero che sto percorrendo. Nella mente mi ripeto un mantra: sono Manitù, il grande bisonte bianco. Niente può fermare un dio nella sua caccia. E volo, volo in mezzo ad una abetaia. Ogni tanto i rami lasciano cadere masse di neve. E’ un suono armonioso, lieve, neve così leggera che cade e si distende subito. Cristalli di luce impalpabili come i miei pensieri. Entro in una radura: una lepre lascia leggere tracce mentre cerca una via di fuga. Non sei tu che cerco, la mia preda è molto più grossa, leggiadra, così importante da meritare l’attenzione da parte di un dio. Si sono il bisonte bianco, ora ne sono consapevole. La radura è presto superata e attraverso un piccolo bosco di faggi. Così spogli con foglie secche ancora attaccate ai rami e fili di neve che li coprono. Sopra le piante un filo di fumo. Presenza di abitazioni, di camini di caldo, di cibo. Ma non ho freddo il mio corpo è perfettamente isolato dal gelo esterno e non patisco la fame. Sono così eccitato dalla caccia che non provo altri stimoli. Passo veloce tra grossi pietroni semi-sommersi dalla neve. Cumuli che escono fuori dalla distesa bianca. Sono come pensieri puri che affiorano dal vuoto della mia mente. Cercano di crescere ma rimangono dove sono a giocare tra loro, senza prendere coscienza e attenzione da parte mia. Il fiato si condensa, diventa una nuvola che subito scompare per apparire un istante dopo. Va veloce, con passo regolare, tutti i tuoi muscoli sono in movimento, la tua falcata è regolare, va che la preda si sta avvicinando, mi ripete una voce nella mente. All’inverso c’è un villaggio. Case in pietra, travi robuste per sopportare un tetto di lose carico di neve. Passo su un piccolo ponte in legno che scavalca un torrente gelato. L’acqua scorre sotto lo strato di ghiaccio, coperto da neve, ma ogni tanto affiora in piccole pozze, laggiù dove il sole è riuscito a vincere il freddo e a farsi strada. Bolle si formano e scompaiono al passare della corrente sotto una lastra di ghiaccio sottile e trasparente come il vetro. Sul villaggio volano alcune cornacchie. Emettono un grido fastidioso. Forse vogliono spaventare gli abitanti del villaggio gridando con la voce rauca che qualcosa di brutto sta per capitare al loro mondo, o forse bisticciano tra loro. Uccelli strani le cornacchie, il loro saltellare, quel muovere la testa da un lato per guardarti in modo beffardo. Sono più simile all’aquila, il suo volo è lento, alto, ha la capacità di osservare le cose con distacco. Ma cosa penso mi chiedo, sono un dio e gli dei non possono fare e avere preferenze. Per un attimo non ho pensato alla preda, un pensiero è riuscito a bucare il vuoto della mia mente e a distrarmi dal sottile gioco della caccia. Eppure adesso percepisco l’odore della preda con più forza. Non è molto lontana. Il suo corpo emette molecole che il vento consegna al mio olfatto. Continua la rincorsa, sono veloce, il mio corpo risponde perfettamente alle sollecitazioni del terreno, io sono il bisonte bianco, io volo sopra la neve, stasera stregoni indiani festeggeranno la mia vittoria e danzeranno in mio onore. Ecco la mia adesso è una danza su un palcoscenico bianco, gli abeti hanno lasciato il posto a qualche larice, e posso vedere chiaramente un punto scuro davanti a me. Sto raggiungendo la preda, sono stato bravo nella mia corsa, ma devo ammettere che la neve farinosa mi ha avvantaggiato. Riprendo coscienza del mio stato. Non sono un bisonte, non sono un dio, ma un ragazzo felice che scivola su un paio di sci da fondo, adesso riconosco, non la preda, ma la persona che il mio cuore ama ma non so se ricambiato, che scivola con eleganza sugli sci. La pista è perfettamente battuta affianco Simona, ci fermiamo lei mi gratifica di uno splendido sorriso, i suoi occhi ridono, ha le guance arrossate, è così bella che vorrei abbracciarla, trascinarla sulla neve, giocare con lei, baciarla. Ma riesco solo a dire: “Ciao, sono felice di averti incontrato, facciamo l’ultimo tratto di pista insieme?” Accetta. E pensare che pochi istanti prima ero un dio e adesso sono solo un giovane ragazzo innamorato. (Ghigo di Prali, gennaio 1988)
Enrico Garrou

La festa per l’uccisione del maiale.

Vengo svegliato da un rumore sordo. Nei loro letti i miei due fratelli dormono beati. Siamo tutti coperti con trapunte di lana e nel letto c’è un bel tepore.  Così non si può dire nella stanza. La stufa a segatura nella notte si è spenta e non riesco a vedere fuori dalla finestra se la neve continua a scendere perché i vetri sono opachi per il ghiaccio. Il rumore, sembra il grido di un bambino, si ripete ma sento anche voci di persone. E’ strano, siamo 272 anime in un paese sperduto di montagna e in pieno inverno i rumori sono rarissimi. Esco fuori dal letto e velocemente mi vesto. Sono curioso devo andare a vedere cosa succede. I miei fratelli continuano a dormire. Mia Madre si è svegliata e approva la mia uscita. Fuori c’è una nebbia fitta che attutisce i suoni e le figure ma intravedo delle persone lungo la strada che da casa mia porta alla nostra chiesa. La neve non cade più e il sentiero non ancora pulito dalla neve caduta è quasi scomparso. Cammino a fatica in mezzo a uno spolverio di neve. Neve farinosa, alzo ad ogni passo miliardi di cristalli. Amo follemente la neve. E’ parte integrante della mia vita. Ci sono due uomini che trascinano una grossa slitta e dietro riconosco i Pascale. Lui minatore, la moglie e i due figli grandi. Uno, Gino è il panettiere del paese, l’altro Dino fa il contadino come la madre. Adesso so l’origine del suono strano. Legato sulla slitta c’è un enorme maiale. Nella stalla veniva tenuto in un piccolo recinto e alla sera quando si andava a prendere il latte, la visita al maiale era una consuetudine. Noi ragazzi gli davamo da mangiare foglie di rabarbaro, per sentire i suoi grugniti di approvazione. Il freddo è pungente e l’animale emette un suono simile a un lamento. Non è mai stato fuori dal tepore e dalla penombra della stalla e per lui non deve essere piacevole sentire il freddo e essere legato. Chiedo stupito a Dino dove portano il maiale e lui mi risponde tutto contento che vanno ad ucciderlo per fare i salami. Anzi mi dice di avvertire i miei in quanto siamo invitati alla grande festa che si terrà dopo la macellazione del maiale. Capisco perché è felice. Per i Pralini il maiale è fonte di vita, e non si getta via niente tutto si utilizza. Salami e patate bollite sono uno dei piatti soliti delle nostre tavole. Vicino all’ingresso della chiesa Valdese c’è uno spiazzo dominato da un grosso albero. La slitta si ferma e una grossa fune viene fatta passare sopra il ramo più grosso. Ad una estremità c’è un grosso uncino che viene infilato tra le corde delle zampe posteriori del maiale. Dall’altro capo in cinque o sei ci mettiamo a tirare la corda e il maiale sale verso il cielo ma a testa in giù. Intanto sono arrivati le ragazze e i ragazzi del paese e l’atmosfera è molto allegra. C’è Marilena e la sua amica Anna. Hanno la mie età e sono molto carine. Hanno guance arrossate dal freddo e i denti bianchissimi spiccano quando sorridono. I loro occhi azzurri mi fissano e sorridono. Forse riuscirò a strappare un bacio nel fienile a una delle due a festa finita. Il maiale grida sempre più forte. Ha sicuramente capito che sta succedendo per lui qualcosa di brutto. Ci sono parecchi Pralini e il signore Guener che è un vecchio barbet (Anziano che è diventato un punto di riferimento per i compaesani), si avvicina alla testa del maiale con un grosso coltello in mano: due tagli netti e dalla gola del maiale inizia a colare il sangue che viene raccolto in una grossa bacinella posta sotto la sua testa. La vita è come sospesa.  La gente è immobile, ipnotizzata dal sangue che cola. Anche i cani hanno smesso di abbaiare. C’è la neve macchiata di rosso, le urla del maiale, la nebbia bassa, qualche fiocco di neve che è incominciato a cadere e molti corvi su in cielo. Mi dispiace per questa uccisione ma per la famiglia Pascale tutto questo significa avere da mangiare per molti mesi. Ormai il maiale non grida più, il signor Guener gli apre la pancia e tutti i presenti si mettono al lavoro. Si tagliano le orecchie, il muso, si preleva il grasso, la carne, il cuore, le budella, la vescica, le zampe, la cotenna, insomma tutto, proprio tutto, in poco tempo le varie parti del maiale vengono prese, lavate, bollite, o messe in padella o tritate con le erbe e le spezie e poi insaccate. Si fanno salami, prosciutti, mustardele, ciccioli. Ritorno a casa, avverto mamma e i miei fratelli Erica e Alberto e quando è ora andiamo dai Pascale a mangiare. La cucina è affollata: ci sono molti invitati.

Un grande pranzo: le donne servono in tavola, la stufa mantiene un caldo piacevole, il vino è in tavola.  Naturalmente sono bottiglie di Ramie, il  vino della mia valle i cui vitigni sono coltivati in terrazzamenti fino ai mille metri. E’ un vino asprigno come il carattere di noi montanari, ma generoso. E vai con cotechino e patate bollite. E poi le mustardele, cioè insaccati con grasso fuso, parti di lingua, i rognoni, qualche pezzo di polmone tutto tritato e impastato con il sangue appena raccolto, devo confessare che l’insaccato bollito è delizioso. Arriva la carne del maiale, con le patate fritte e i ciccioli, accolta con gioia da tutti noi. C’è in tavola anche del Seiras, formaggio tenuto sotto fieno. E’ proprio una bella festa. Il vino ha scaldato gli animi e si raccontano le storie che sono capitate ultimamente nel paese.  Il pranzo continua con l’arrivo di una forma di toma molto stagionata ma non la mangio perché mi fa schifo vedere uscire dalla pasta del formaggio, appena tagliata, delle larve bianche. E pensare che qualcuno le mangia! Con una forchetta si infilza la larva e poi un pezzo di formaggio e poi giù in bocca a masticare estasiati il boccone. Mia madre, specialista in liquori ha portato un liquore al Kummel molto apprezzato dai grandi e una bottiglia di Genepy per accompagnare una crostata di mirtilli. Siamo invitati anche per il giorno dopo a pranzo perché verranno portate in tavola due prelibatezze: i Batsuà dove le zampe del maiale subiscono una trasformazione gastronomica eccezionale. Si fanno bollire nell’aceto dopo averle disossate e poi vengono tagliate a strisce e impanate. Il secondo è ancora meglio: la signora Pascale che di nome fa Elvina servirà le Grive, polpette avvolte nell’omento del maiale in un impasto che vede carne di maiale un po’ di fegato e polmone, Il tutto fatto friggere in padella sopra il putagè e servito con le immancabili patate fritte. Per formaggio il bruss, toma lasciata a macerare e fermentare a piccoli pezzi con latte e dopo qualche giorno trattata con Genepy per fermare la fermentazione. Formaggio forte. Due giorni di mangiate per gente che lavora dodici ore al giorno e quindi ha bisogno di molte calorie. Il maiale è un dono di Dio e va festeggiato. Usciamo dalla casa e la nebbia è sparita. Il vento ha pulito cielo e c’è un profumo buono di neve che avvolge tutto. Orione è alta in cielo, tutto è immutato come sempre, il mio mondo si prepara ad andare a dormire. Le luci del paese si spengono. Ma si vede chiaramente: la luna e le stelle ci tengono compagnia.

ghigo febbraio 1960                                        Enrico Garrou

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